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Luanda, Angola
10 November 2013 Written by 

Luanda, Angola

Il volo per Luanda è partito un’ora di ritardo alle 22,30 da Lisbona. Mi hanno detto che è normale. L’aereo è pieno, sia in classe business che in economica. La nostra hostess, filiforme ed alta, mi ricorda tanto Olivia di Braccio di Ferro, con più grazia.

 

Noccioline, vitello, le solite cose di plastica che danno in aereo, ben servite, ma sempre  finte, porto, caffé, poi dormo dopo aver finito un cruciverba di Bartezzaghi. Il volo è lungo, più di sette ore.   Il mio vicino di posto è una tomba, nessuno parla, è notte e tutti dormono.

All’alba arriviamo in vista della costa Angolana. Luanda dall’alto è particolare, è Africa. Con l’aereo ci si avvicina dal mare e dall’oblò si vede una stretta spiaggia sabbiosa sormontata da un’alta falesia che delimita l’altopiano angolano; Mentre ci si avvicina alla pista d'atterraggio si vedono a perdita d’occhio basse casupole e baracche, cortili, strade sterrate con ingorghi maestosi, intere  aree ricolme di rifiuti e pozze di liquame, uomini e donne  che visti dall’alto sembrano formichine indaffarate. Alberi polverosi, palazzi anneriti dalla pioggia tropicale e dalle muffe, senso di provvisorio, di caotico, di disordine e di povertà. L’Africa che mi ricordavo io era così, sono passati quindici anni dall’ultima volta che sono stato in paese equatoriale ma nulla è cambiato.

“Obrigado” mi dice l’hostess mentre esco dall’aereo, “Obrigado” rispondo sorridendole. Poi c’è l’impatto col caldo tropicale che ti mozza il fiato quando scendi la scaletta e sali sul pullman che ti porta alla dogana.

Prima di noi è appena arrivato un aereo dell’Aerfrance, c’è ressa nello stanzone d’attesa dove si passa la dogana. Alcuni addetti in divisa di due compagnie petrolifere americane con il loro logo ben in vista  richiamano i passeggeri, tecnici che lavorano per loro, e li incanalano in una coda VIP, mi aggiro alla ricerca di un cartello della mia compagnia, niente, non c’è. Allora decido di mettermi in fila con i passeggeri comuni, i peones che si accalcano sudati davanti agli sportelli della polizia. C’e’ un negro alto, muscoloso e brizzolato in camice bianco che gira tra di noi e timbra i certificati di vaccinazione contro la febbre gialla. Si avvicina e gli mostro il mio passaporto ed libretto sanitario. Lo guarda, mi guarda e ride di gusto. Che avrà da ridere? –Sorry?  Mi fa segno che mi sono vaccinato nel novantadue e la prevenzione vale dieci anni, la vaccinazione è scaduta! – Obrigado- mi dice, - Obrigado perché-  gli rispondo cercando di riprendergli il certificato ed il passaporto. Lui furbo mi prende i documenti e se li mette in tasca. Ma che vuole? cosa devo fare? Gli chiedo- problema? Sim problema, devi fare la vaccinazione – mi risponde in portoghese e poi passa i miei documenti ad un suo collega smilzo, emaciato e con un largo camice biancastro che gli arriva quasi fino ai piedi, emblema della sanità africana.

Anche lui guarda il certificato, ride sotto i baffi e mi dice: 25 dollars e ti faccio la puntura ed il timbro sul tesserino. Anche un altro disgraziato nordico è nella mia stessa situazione. Lui, da vero "settentrionale", non si scompone, segue me e l’infermiere negro come un cagnolino. Entriamo nella “clinica” dove si trova un lettino per le visite, una piccola scrivania, un armadio a vetri con alcune scatole di medicine ed un vecchio frigorifero.

Prende dal frigorifero una boccetta con del liquido bianco,  dall’armadio una siringa incartata, la scarta, riempie con un c.c. di liquido  la siringa, prende del cotone e dell’alcol, mi strofina il braccio e mi infila questa siringa nel braccio con un sottile ghigno sadico. Poi prende la siringa e storta l’ago sul piano della scrivania davanti a me per dimostrarmi che quella siringa non verrà mai più usata. L’altro viaggiatore senza vaccinazione mi guarda preoccupato, io gli sorrido, aspetto che l’infermiere mi metta un timbro sul documento, pago, prendo il tutto e saluto il nordico con un good luck, bye bye.

Dopo un’ora finalmente mi ridanno il passaporto e passo la dogana. Dall’altra parte trovo l’autista della mia compagnia che mi aiuta con i bagagli, andiamo all’auto abbacinati da una luce limpida, calda che mette in evidenza i mille  colori sgargianti dell’Africa. Donne con vestiti rossi, verdi, gialli, mezzi di trasporto colorati, ambulanti con ananas, manghi, banane, papaie, contenitori in plastica colorata, ricambi d’auto. Bambini  con giornali e sigarette da vendere tra le auto ferme ai semafori.

Il traffico di Luanda è caotico ed infernale. Ci sono troppe auto e le strade principali sono le uniche in ordine ed asfaltate, le altre sono spesso sterrate e, se asfaltate, hanno delle grandi buche da aggirare con estrema cautela per evitare di rimanere bloccati. Dunque tutti si riversano su queste poche strade che tagliano diametralmente la città. Quando provengono dalle strade secondarie, per immettersi nelle vie principali lo fanno “a spinta”, cioè spingono con un gioco di frizione acceleratore lentamente la propria auto verso il centro dell’incrocio finché il più debole cede il passo al più forte. Il mio autista, dai capelli bianchi, ha un’esperienza pluriennale di guida in queste condizioni.

Arrivo in hotel. E’ bello, lussuoso e pulito, incontro una delegazione di funzionari EU (Europa Unita) eleganti, leggermente fuori luogo,con le guardie del corpo che li accompagnano alle auto di rappresentanza. Mi faccio una doccia e poi vado in ufficio con il solito autista che mi ha aspettato nella hall dell’albergo.

Per farvi capire come si svolge una giornata qualsiasi dei cittadini di Luanda vi racconto un episodio a cui ho assistito dalla finestra dell’ufficio. Era di pomeriggio, stavo lavorando nel mio  ufficio fresco e pulito quando sento un vocio sempre più forte provenire dalla strada. Ad un certo punto il trambusto diventa così forte che temo il peggio. Apro la finestra, mi affaccio cautamente dal balcone e vedo all’incrocio sotto il palazzo un nugolo di gente che assiste ridendo e partecipando attivamente al litigio tra gli autisti di un bus e di un’auto. Si capisce dall’animosità delle persone e dagli strilli dell’autista del pullman che l’auto non ha ceduto il passo al grosso mezzo. Anche i passeggeri del bus sono scesi a dar man forte al loro autista, le donne di passaggio ed i piccoli  commercianti dei banchetti allineati sul marciapiede invece tifano per il povero automobilista.

Nel frattempo le altre auto messesi di traverso tentano invano di passare complicando sempre di più l’ingorgo che oramai è diventato inestricabile, con tutti gli autisti fuori dalle auto che imprecavano. Poi, dopo circa mezz’ora di discussione a chi ho assistito divertito appoggiato sulla balaustra del balcone, noto che i toni delle voci si abbassano. Ora prevalgono le risate delle donne e le battute degli ambulanti. Qualche auto, capendo che non c’è niente da fare, incomincia a fare retromarcia. Finché magicamente la matassa si dipana ed il traffico riprese intenso ma sonnolento, gli ambulanti ritornarono ai loro piccoli commerci e le donne coi bambini dormienti appollaiati sulle spalle e la spesa trasportata in bilico sulla testa riprendono il loro cammino.

Dalla finestra noto in lontananza la struttura di un palazzo mai finito e fatiscente con masserizie ammassate sui balconi, segno che qualcuno ci vive dentro. Il giorno dopo chiedo al mio autista informazioni sul palazzo "pollaio". Mi rispose: “ahh, ahh, tu stai parlando della “Cecenia”, è un palazzo che i portoghesi abbandonarono ancora non finito quando dovettero lasciare l’Angola  durante la rivoluzione. Ora è abitato dagli sfollati che sono arrivati a Luanda durante la guerra civile con l’Unita, gruppo ribelle che controllava buona parte del territorio rurale dell’Angola”.

Dentro di me penso: Il sud del mondo non è un concetto geografico, ma sociale. Anche la Cecenia, pur essendo a nord fa parte del“sud del mondo” con le sue città bombardate e la vita precaria di guerra.

Pierangelo Gianni (circa 2007)

L'ingorgo



Redazione

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