Scampoli di vita di "quella Gerenzano"
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- **In Gente di Gerenzano**
- **Last Updated on **17 **November** 2013****
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Gerenzano era, per nostra fortuna, già a quei tempi un paese ad economia mista: campagna e stabilimenti.
La giornata lavorativa cominciava molto presto allora: alle cinque e trenta le sirene dei tre stabilimenti (la "SEDA", la "N.I.V.E.A.", il "CUTON") chiamavano le nostre mamme e le nostre sorelle alla prima fatica della loro lunga giornata. Nei mesi della fienagione poi, il fischio delle sirene era addirittura preceduto dall'ossessivo "martela' i ranz" dei nostri contadini. Nella stessa famiglia c’era il papà contadino e la mamma e la figlia (raramente il figlio) operaie in uno dei tre stabilimenti.
La condizione peggiore era quella delle donne perché, oltre a dover lavorare negli stabilimenti, dovevano badare alla casa e dare una mano nei lavori della campagna.
Le operaie che lavoravano alla "SEDA", alla "N.I.V.E.A." e al "CUTON" si distinguevano per i loro grembiuli: azzurri quelli della "SEDA", neri quelli della "N.I.V.E.A." e a strisce verticali bianche e blu quelli del "CUTON". Il lavoro in questi tre stabilimenti si svolgeva su due turni: dalle sei alle quattordici e dalle quattordici alle ventidue. Noi ragazzi dovevamo portare entro le otto ed entro le sedici la "ramina" o la "schisceta" contenente la colazione o la cena per le nostre mamme e sorelle.
Le nostre nonne erano vestite sempre in nero: calze nere, "scusàa sempar negar", " ul panet", negar anca quell" e zoccoli di legno, i "muntagnitt": le scarpe erano riservate per la messa domenicale.
Noi ragazzi avevamo tante incombenze: oltre a quella a cui ho già accennato sopra ve ne voglio illustrare altre due:
quella di portare per le stradine di campagna "i occh e i pulitt" a mangiare tenendoli a bada con un bastone e quella di preparare il fiasco per la "barca da San Pedar". La sera del 28 giugno mettevamo un fiasco riempito d'acqua alla quale poi era stato aggiunto l'albume di un uovo nell’orto di casa. Se il tempo era sereno e se c’era la rugiada, al mattino del giorno 29 (cioè a san Pietro) i filamenti dell'albume avrebbero formata una specie di barca, "la barca da san Pedar". Prima del sorgere del sole gli orti si animavano: lascio al lettore immaginare l'esultanza o la delusione in caso di riuscita o meno dell'esperimento.
L'aria di Gerenzano ha sempre avuto un certo qual "olezzo": attualmente esso è di importazione (la nostra cava è diventata la più grossa pattumiera d'Europa) mentre allora era prettamente locale e più naturale ed era quello che emanavano, specialmente nei giorni più caldi dell'anno, le numerose "bonze" e i "carett" che portavano in campagna la "pisa" e "ul rud". A quel tempo le nostre campagne erano caratterizzate da filari di gelsi tutti uguali; la foglia del gelso costituiva il nutrimento dei bachi da seta o filugelli: in dialetto "i cavaler". "I nostar paisan" li allevavano in locali appositi a temperatura costante su tavole a castello, e alla fine del ciclo li consegnavano agli incaricati dei setifici. I nostri contadini erano gente alacre, conoscevano bene la terra e sapevano farla rendere al massimo a prezzo però di fatiche e sudori per noi inimmaginabili. I loro principali strumenti d'evasione erano il vino e il canto e l'osteria il loro ritrovo: all'osteria, nella buona stagione, si ritrovavano attorno ai tavoli di pietra e sotto gli accoglienti pergolati (vedi l'osteria "du la Pansciona" e "dul Cagnon"). I loro divertimenti erano: la morra, "ul quarantott", "ul ciapanò", la "conscia" e le bocce.
I momenti principali del loro tempo erano scanditi dalle stagioni: l'aratura, la semina, la fienagione, la mietitura, l'uccisione del maiale, la pulizia dei boschi e la veglia. Erano momenti di solidarietà in cui tutti si aiutavano, tutti si davano una mano, le gioie degli uni erano le gioie degli altri, tutti si conoscevano e buona parte dei contadini era imparentata. A quel tempo non era ancora arrivato il detto "Dio per tutti e ognuno per se". I campi separavano, allora, il centro di Gerenzano dai suoi sottoborghi (vedi "ul burghett", "ul laghett", "San Giacum", "i Furnas") per non dire dell’Ingregia separata ancora adesso. Era una distanza proprio materiale: mi ricordo che mia mamma quando doveva recarsi in centro mi diceva: "a vu in paes".
Le processioni segnavano le domeniche più importanti: erano aperte dai ragazzi dell'oratorio maschile e femminile, poi venivano le "figlie di Maria" con i loro abiti bianchi con fascia azzurra ai fianchi, il nastro azzurro con appesa la medaglia, il velo e le calze bianche e, in mezzo a loro, gli "angioletti", poi le donne, il corpo musicale S. Cecilia e, portato dagli "scolari" con la veste bianca legata in vita da un cordone rosso e con la mantellina rossa, il baldacchino sotto il quale c’era il sacerdote che portava il Santissimo e, dietro, tutto il popolo.
Lungo il percorso della processione c'erano i "sandalinn", tirati da un capo all'altro della strada, dalle finestre pendevano i paramenti rossi col bordo giallo oro e ogni ingresso di corte aveva la sua "porta" fatta con "brugh" e ornata di "cadenon", "roeus" e "balon". E si faceva a gara a chi allestiva la "porta" più bella.
Alla festa del paese l'albero della cuccagna era di pragmatica: si vedeva questo albero ergersi nella piazza antistante la chiesa con una ruota in cima, da cui pendevano salami, formaggi, bottiglioni di vino ed altre leccornie per i bramosi arrampicatori che non poche volte dovevano arrendersi al grasso con cui l'albero era stato cosparso. Nei giorni seguenti la Liberazione, noi bambini andavamo a veder passare gli "Sherman" americani sull'autostrada Milano - Como: gli buttavamo serenelle e mughetti e gli americani ci ricompensavano lanciandoci caramelle, cioccolato e cioccolatini. Dovevate vedere che zuffe si accendevano fra noi per riuscire a raccoglierne di più.
Per quella Gerenzano proviamo alcuni rimpianti: era la Gerenzano della nostra età più bella, l'adolescenza; era la Gerenzano della solidarietà perché la vita di allora era una vita di insieme che facilitava i rapporti di solidarietà ed educava all'attenzione verso chi stava male o aveva bisogno di aiuto. Quando un anziano cominciava a sentire il peso degli anni era assistito in famiglia; la malattia o l'indisponibilità al lavoro del vicino di casa diventava un'occasione per sostituirlo nel lavoro dei campi prestando le braccia ed anche le bestie. Ed infine era la Gerenzano della voglia di ascendere dalla miseria verso il possesso del necessario.
Ma questi rimpianti non ci devono far dimenticare che la vita di allora era dura, molto dura: era una vita segnata da miseria e privazioni e da orari di lavoro massacranti, infatti tutti gli uomini da me intervistati, ragazzi di allora che, a differenza dei ragazzi della nostra generazione, avevano lasciato fatiche, sudori e la loro giovinezza sulla terra, hanno esternato il loro odio per la terra: "basta con la terra, non mi parli più della terra, non ne voglio più sapere", tanto è vero che appena l'hanno avuta in eredità l'hanno subito venduta per costruirsi con il ricavato la casetta. Quella Gerenzano ci è sfuggita e ci sfugge continuamente giorno dopo giorno, starei per dire ora dopo ora....:"ul Laghett al gh'è pu. San Giacum e ul Burghett s'hinn tacàa al paes, i furnas s'hinn vuiàa", i grossi platani che ombreggiavano la piazza della chiesa sono stati tagliati. Tutto è cambiato.
"Ma se Gerenzan vecc l'è scumparì, anca i nostar vecc a pucch a pucch scumparisan, quji ca parlan ul dialett spetasciàa hinn sempar menu e i gerenzanes ca restan diventan sempar pusèe bastardàa".
Mario Carnelli