I capp

Fino al 1940/41 la mietitura a Gerenzano veniva sempre fatta un po’ anticipatamente perché i contadini avevano molto timore della grandine.

Preferivano tagliare il frumento ancora un po' verde (e quindi avere meno farina e più crusca) piuttosto che correre il rischio di perdere il raccolto a causa della grandine. La mietitura veniva fatta sempre a mano con la "ranza" o con la "mùsura" e il frumento veniva lasciato per terra due o tre giorni ad essiccare. Nel 1941 il "fascio" stabilì che il frumento fosse portato all'ammasso al consorzio di Saronno e siccome lì veniva pagato in base al tasso di umidità che aveva, i "paisan" decisero di correre il rischio della grandine e di mietere il frumento quando questi fosse giunto al giusto punto di maturazione.

Quando il frumento era ben secco passava "ul regiù" a fare i "coeuv": prendeva una manciata di piantine di frumento, la legava con destrezza a un mucchio di altre piantine e faceva così i "coeuv" (i covoni). Donne e ragazzi portavano poi i covoni in un punto del campo e lì si dava inizio alla costruzione della "capa". Il "regiù” metteva tre o quattro covoni in piedi e poi vi appoggiava altri covoni dando una certa pendenza e avendo cura di mettere le spighe verso l'interno della costruzione. Quando l'altezza della "capa" era di circa un metro, il "regiù" vi montava sopra e sistemava i covoni che donne e ragazzi gli passavano prima con le braccia e poi con i forconi.

La "capa" aveva una circonferenza di circa quattro metri, poi, man mano che si alzava, si allargava poco a poco per poi cominciare a restringersi e terminare come un ombrello aperto. Arrivato a un'altezza di tre metri il "regiù" metteva i "capet" che non erano altro che covoni legati non in mezzo ma quasi vicino alle spighe in modo che si potessero allargare e coprire così i covoni sottostanti senza far passare l’acqua nel caso piovesse (i “capet” erano circa quindici) ed infine con un covone grossissimo di segale (formato da circa tre covoni normali) si faceva “ul capusc” cioè il cappello.
Si adoperava la segale perché questa era molto più alta del frumento di allora e riusciva così a coprire tutta la costruzione. Prima di mettere “ul capusc” il “regiù” infilava nel mezzo della “capa” un bastone di legno, generalmente di gelso, per far si che il vento non facesse oscillare la costruzione.
La sommità del bastone superava di circa 30-40 cm la costruzione e su di esso veniva infilato alla rovescia il “capusc”, che era stato legato anch’esso vicino alle spighe, per poterlo allargare a raggiera. Le sue spighe venivano arricciate vicino al bastone ed ivi legate in modo che, per caso piovesse, l’acqua non vi poteva penetrare.

Vi erano “regiù” talmente bravi e con un loro stile personale che ormai la gente aveva imparato a riconoscerli ed era in grado di dire, vedendo i “capp”, che questa era stata fatta dal tale e quella dal tal altro, senza paura di sbagliare.

Il paesaggio che anche noi abbiamo fatto in tempo a vedere pareva un paesaggio da favola: la campagna attorno a Gerenzano sembrava costellata di casupole gialle sormontate da croci. I “capp” rimanevano sul posto per circa 30 – 40 giorni. Passato quel periodo di tempo i “capp” venivano smontati e portati nelle corti dove venivano rifatti su scala più grande (di 10 – 15 ne veniva fatta una sola in attesa che arrivassero “i machin da batt”.
Quando “i machin da batt” cominciano il loro lavoro, le finestre delle corti che le ospitano, pur essendo estate, rimanevano sempre chiuse a causa della polvere e dei “rischieu” che venivano sollevati per aria.
Gli uomini che lavoravano attorno alle mietitrebbiatrici sembravano dei banditi: infatti avevano il volto coperto fino agli con un fazzoletto per la polvere che circolava.

Il rumore che si levava da queste macchine era assordante ed era dato dal maglio che con cadenza regolare scendeva a pressare la paglia per fare le balle. Finita la trebbiatura, portate le balle di paglia sulla cascina e il frumento all’ammasso, l’aria ritornava limpida e la corte ritornava alla sua normalità.

Mario Carnelli