27April2024

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Cronaca di un 25 aprile (2009)

Complice la bella giornata, e forse anche le polemiche innescate da chi pretenderebbe di snaturare il significato storico della festa della Liberazione, c’è più gente del solito sabato mattina in piazza prima della partenza del corteo diretto al cimitero.

 

Le bandiere e la banda musicale, clichè lievemente anacronistici ma simpaticamente retorici di ogni parata di paese, sono seguite dal sindaco, da alcuni degli amministratori e dei consiglieri comunali, dai ragazzi delle scuole medie con i loro insegnanti, dai rappresentanti dei partiti di centro-sinistra, oltre che da un nutrito gruppo di cittadini. Assenti – ma non è una novità – tanto i consiglieri di “Libertà per Gerenzano” quanto gli esponenti dei partiti che a questa lista civica fanno riferimento: UDC e Pdl.

Lungo la strada piccoli gruppi di persone, famiglie, bambini attirati dalla musica si affacciano ai balconi, spuntano dai cortili. L’ingresso al camposanto, l’incontro tra il sindaco e il parroco e la benedizione della lapide che commemora i gerenzanesi caduti nelle due guerre fanno parte della tradizione. Fra gli astanti qualche persona già anziana di sicuro ricorda le sofferenze e la trepidazione dei giorni della primavera del ’45: anche se probabilmente sono quasi tutti troppo giovani per aver vissuto quei giorni da protagonisti (all’epoca erano ragazzi o bambini), si tratta degli ultimi preziosi testimoni oculari di una stagione il senso della quale si va sempre più affievolendo.

Certo, rimangono i libri e i documenti storici, le foto e i filmati di allora, e ci sono romanzi che ci parlano dell’epopea partigiana, delle motivazioni che potevano portare a stare da una parte o dall’altra, delle atrocità e degli opportunismi che costellarono la guerra civile (penso a Uomini e no di Vittorini, al Sentiero dei nidi di ragno di Calvino, all’Agnese va a morire di Renata Viganò, a tutti i libri di Fenoglio, a numerosi libri di Pavese…); e tuttavia è difficile sostituire con una pagina scritta l’emozione che trasmette ascoltare la viva voce di un testimone diretto. Il mio personale immaginario sulla seconda guerra mondiale, ad esempio, si è costruito, prima che sui libri, sui racconti dei miei nonni: l’oscuramento, i bombardamenti, la corsa verso i rifugi approntati nei campi. E poi scaglie di ricordi più precisi: mio nonno che si presenta a casa di mia nonna (con cui era allora fidanzato) con al collo il fazzoletto azzurro dei badogliani dopo aver nascosto la pistola nel canale di scolo; mia nonna che vede passare la colonna dei camion tedeschi e fascisti che scortano Mussolini nel suo vano tentativo di fuga verso la Svizzera, e al sopraggiungere di due caccia alleati si deve buttare in un fosso per ripararsi dalle sventagliate delle mitragliatrici… 

Mentre si torna verso la chiesa parrocchiale per la messa alla memoria, si fa sosta presso il tozzo monumento che da qualche anno sorge vicino al portone principale del cimitero, e il sindaco pronuncia il suo discorso. Dovrebbe essere il momento in cui il ricordo di ciò che fu esce dai binari della noiosa ritualità istituzionale e prende vita a beneficio di chi oggi ricorda il passato.

Parte male Silvano Garbelli: prima snocciola qualche patetica banalità sull’ammirevole coraggio dei caduti di tutte le guerre (come se davvero la maggior parte di loro avesse offerto consapevolmente e volenterosamente la propria vita, e non fosse invece stato travolto suo malgrado da una violenza cieca e disumana), poi si rammarica della scarsa partecipazione al corteo (che in realtà negli ultimi anni non è mai stato così frequentato) e del fatto che della Resistenza si sia “abusivamente appropriata una sola parte politica”.

Pare che quest’ultimo sia un luogo comune abbastanza diffuso, negli ultimi tempi, fra gli esponenti della destra di governo. Ma è effettivamente così? Dopo tutto Beppe Fenoglio, il principale cantore letterario dell’epopea partigiana, non era comunista; che i partigiani non fossero tutti garibaldini lo si sa da sempre; e da sempre si sa che, nonostante ci fosse una “parte giusta” e una “parte sbagliata”, non tutti quelli che si schierarono dalla parte giusta erano eroi senza macchia, e non tutti quelli che si schierarono dalla parte sbagliata erano farabutti.

Basta pensare a quello che scrisse molti anni fa Italo Calvino (nato nel 1923), che pure fu partigiano e – fino al 1956 – iscritto al PCI, nella prefazione al Sentiero dei nidi di ragno: “Per molti miei coetanei era stato solo il caso a decidere da che parte dovessero combattere; per molti le parti tutt’a un tratto si invertivano, da repubblichini diventavano partigiani o viceversa; da una parte o dall’altra sparavano o si facevano sparare; solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile”.

Con tutto questo, a me sembra che si possa dire che la destra non abbia mai celebrato la Resistenza non perché se ne fossero abusivamente impadroniti i comunisti, ma semplicemente perché nei valori che la Resistenza esprime proprio non si riconosceva. La vera domanda è: le contraddittorie resipiscenze degli ultimi anni corrispondono a un reale aggiornamento di valori delle nuove destre o rappresentano pure operazioni di maquillage politico per cercare di recuperare il maggior numero possibile di consensi fra gli elettori? Ciascuno risponda come meglio crede.

Nel seguito del suo discorso Garbelli si riprende un po’, e rende effettivamente omaggio ai partigiani e alle istituzioni democratiche che dalla lotta partigiana scaturirono e si misero in moto grazie all’apporto di tutti i partiti dell’arco costituzionale. Poi tocca a numerosi ragazzi delle scuole medie che, visibilmente emozionati e un po’ balbettanti, leggono lettere di diversi condannati a morte della Resistenza italiana.

A questo punto ci si riavvia verso il paese, altri si uniscono al corteo, molti entrano anche in chiesa.

Entro anch’io, sebbene non sia un assiduo frequentatore delle attività parrocchiali, curioso di ascoltare il contenuto della predica. Il 25 aprile coincide con la ricorrenza di San Marco evangelista e quest’anno anche con il venticinquesimo anniversario di matrimonio di una coppia di sposi. Don Andrea, che celebra la messa, unisce le tre circostanze, e so che qualcuno si è detto infastidito dalla cosa, quasi si volesse annacquare il ricordo dei caduti e della festa della Liberazione. Ma si sa, la Chiesa riconduce tutto ai ritmi della propria millenaria ritualità, e forse non si può pretendere che avvenga diversamente.

Piuttosto bisogna riconoscere che durante la predica don Andrea rende omaggio brevemente ma con inequivocabile chiarezza ai nobili principi che ispirarono la lotta partigiana e a coloro che si batterono contro una barbarie oppressiva a beneficio di tutti gli italiani degli anni a venire. 

Le celebrazioni della giornata della Liberazione a Gerenzano si concludono così, senza fragorosi entusiasmi di popolo ma anche senza troppe polemiche fuori luogo.

Sappiamo che a parecchi, nell’Italia decisamente individualista e vagamente anarcoide del 2009, parrà fuori dal tempo, superfluo o addirittura ridicolo dare tanto spazio ad avvenimenti così lontani; ed è pur vero che ormai il culto della memoria si tutela soprattutto altrove (nelle scuole, nella cultura diffusa dei mezzi di comunicazione), e in altre sedi si stabilisce quello che vale la pena di ricordare.

E tuttavia, se ha ancora significato parlare di senso civico e di valori fondanti comuni alla comunità nazionale e alle comunità locali dei cittadini, non è forse giusto che il 25 aprile resti più che mai una data simbolo e trovi anche nella forma magari un po’ antiquata delle celebrazioni ufficiali di un paese di provincia il suo specchio istituzionale?

Stefano Gianni      Gerenzano, 26 Aprile 2009